“Il nostro è un paese senza memoria e verità, ed io per questo cerco di non dimenticare” Leonardo Sciascia
1 maggio 1947 – Portella delle Ginestre. Piana degli Albanesi
Il 1 maggio 1947 a Portella
della Ginestra la folla dei contadini riuniti per la Festa del Lavoro e
per la vittoria elettorale, solo pochi giorni prima, del partito
comunista nella Regione, viene investita da raffiche di proiettili.
Muoiono 11 persone, due bambini e nove adulti; 27 sono i feriti.
Il direttivo della Cgil,
convocato d’urgenza, approva un documento sulla strage nel quale, fra
l’altro, afferma: “L’eccidio è la conseguenza dei delitti perpetrati in
Sicilia contro le organizzazioni sindacali – delitti rimasti per maggior
parte ancora impuniti – e della volontà dei latifondisti siciliani di
soffocare nel sangue l’organizzazione dei lavoratori” e proclama lo
sciopero generale. L’ispettore di pubblica sicurezza Ettore Messana,
responsabile della lotta al banditismo, è l’unico a mostrare, sin da
subito, una perfetta cognizione dell’accaduto: “per me è tutta opera di
Giuliano e della sua banda” si lascia scappare in prefettura, davanti
all’onorevole Girolamo Li Causi. E nel pomeriggio trasmette un rapporto,
del medesimo tenore, al ministro dell’Interno. Mario Scelba, chiamato a
rispondere davanti all’Assemblea Costituente, dichiara che non fu un
delitto politico. Ma nel 1949 il bandito Giuliano scrisse una lettera ai
giornali e alla polizia per rivendicare lo scopo politico della sua
strage. Il 14 luglio 1950 il bandito fu ucciso dal suo luogotenente,
Gaspare Pisciotta, il quale a sua volta fu avvelenato in carcere il 9
febbraio del 1954 dopo aver annunciato clamorose rivelazioni sui
mandanti della strage di Portella. L’inchiesta giudiziaria si concentra
sui banditi e procede con indagini frettolose e superficiali: non si
fanno le autopsie sui corpi delle vittime e le perizie balistiche per
accertare il tipo di armi usate per sparare sulla folla. Il 17 ottobre
1948 la sezione istruttoria della Corte d’appello di Palermo rinvia a
giudizio Salvatore Giuliano e gli altri componenti della banda. La Corte
di Cassazione, per legittima suspicione, decide la competenza della
Corte d’assise di Viterbo, dove il dibattimento avrà inizio il 12 giugno
1950 e si concluderà il 3 maggio 1952, con la condanna all’ergastolo di
12 imputati (Giuliano era stato assassinato il 5 luglio del 1950).
Nella sentenza, a proposito della ricerca della causale, si sostiene che
Giuliano compiendo la strage e gli attentati successivi ha voluto
combattere i comunisti e si richiama la tesi degli avvocati difensori
secondo cui la banda Giuliano aveva operato come “un plotone di
polizia”, supplendo in tal modo alla “carenza dello Stato che in quel
momento si notò in Sicilia”. Cioè: la violenza banditesca era stata
impiegata come risorsa di una strategia politica volta a colpire le
forze che si battevano contro un determinato sistema di potere. Restava
tra le righe che le “carenze dello Stato” erano da attribuire all’azione
della coalizione antifascista allora al governo del Paese. La sentenza
di Viterbo non toccava il problema dei mandanti della strage e
dell’offensiva contro il movimento contadino e le forze di sinistra,
affermando esplicitamente che la causa doveva essere ricercata altrove.
Contro la sentenza fu proposto appello e il processo di secondo grado si
svolse presso la Corte d’assise d’appello di Roma (nel frattempo molti
degli imputati, tra cui Gaspare Pisciotta, erano morti). La sentenza del
10 agosto 1956 confermava alcune condanne, riducendo la pena, e
assolveva altri imputati per insufficienza di prove. Con sentenza del 14
maggio 1960 la Corte di Cassazione dichiarava inammissibile il ricorso
del pubblico ministero e così la sentenza d’appello diventava
definitiva.
12 dicembre 1969 – Milano. Piazza Fontana Un ordigno contenente sette chili di tritolo collegato ad un dispositivo ad orologeria, esplode alle 16,37, dentro la Banca Nazionale dell’Agricoltura, in piazza Fontana, a Milano. Il bilancio delle vittime è di 16 morti e 88 feriti. In quel giorno, vari ordigni esplosivi prendono di mira anche altri istituti bancari e diversi edifici. Poco dopo la strage di piazza Fontana, una bomba viene scoperta nella sede milanese della Banca Commerciale Italiana, in piazza della Scala 6. Non è esplosa. Era contenuta in una cassetta metallica portavalori ermeticamente chiusa, posta in una borsa nera. Lo stesso giorno, a Roma, alle 16.55, una bomba esplode nel passaggio sotterraneo della Banca Nazionale del Lavoro che collega l’entrata di via Veneto con quella di via San Basilio. Si contano tredici feriti. Alle 17.22 e alle 17.30, sempre a Roma, esplodono altre due bombe. Una davanti all’Altare della Patria, l’altra all’ingresso del museo del Risorgimento, in piazza Venezia. I feriti sono quattro. Nei giorni successivi alla strage, solo a Milano, sono 84 le persone fermate tra anarchici, militanti di estrema sinistra e due appartenenti a formazioni di destra. Il primo ad essere convocato è il ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, chiamato in questura lo stesso giorno dell’esplosione. Dopo tre giorni di interrogatorio non viene contestata, a Pinelli, nessuna imputazione eppure non viene comunque rilasciato. Ad interrogarlo è il commissario Calabresi il quale guida l’inchiesta sulla strage.
22 luglio 1970 – Gioia Tauro. Freccia del Sud Il 22 luglio 1970, alle ore 17.10 circa, il direttissimo P.T. (treno del Sole) proveniente dalla Sicilia e diretto a Torino, deraglia a circa 750 m. dalla stazione di Gioia Tauro: 6 morti, più di 50 feriti. Nei pressi di Gioia Tauro il macchinista sente un sobbalzo della locomotiva che in quel momento viaggiava a 100km/ora, avverte il pericolo e aziona il meccanismo di frenata rapida, le prime cinque carrozze del lunghissimo convoglio (17 carrozze) si comprimo una su l’altra riducendo la velocità. La sesta deraglia portandosi dietro le altre 12, infine dopo circa 500 metri il convoglio si spezza. Cosa ha provocato il sobbalzo della locomotiva.? Perché il capo stazione ha sentito distintamente “un boato e del polverone”che si alzava dalla parte degli scambi? Tutte domande che fino ad oggi non hanno avuto risposte. Una commissione d’inchiesta stabilirà che si è trattato di un incidente, anche se diversi bulloni che fissano i binari sulle traversine verranno trovati allentati o addirittura svitati. Per il deragliamento del treno saranno incriminati quattro ferrovieri. La sera del 26 settembre 1970 cinque giovani, Gianni Aricò, Angelo Casile e Franco Scordo di Reggio Calabria, Luigi Lo Celso di Cosenza ed Annalise Borth, la giovanissima moglie tedesca di Aricò, si dirigono a Roma a bordo di una Mini Minor carica di documenti comprovanti che il deragliamento del treno di Gioia Tauro (22 luglio 1970) era stato causato da una bomba messa ad arte dai neofascisti in accordo con la ‘ndrangheta. Questi documenti mostravano un evidente collegamento tra la rivolta di Reggio Calabria scoppiata al grido “boia chi molla”, lanciato dal missino Ciccio Franco il giorno 14 luglio 1970 e l’attentato di Gioia Tauro, ed inoltre mettevano in luce la catena di comando che da Reggio Calabria conduceva fino alla Roma del disegno golpista del principe Junio Valerio Borghese che sarebbe scattato 8 dicembre 1970. Ma a 58 Km da Roma, nel tratto che attraversa la provincia di Frosinone, la macchina tampona un camion e i ragazzi trovano la morte. Come risulterà dalle indagini della polizia, l’incidente è causato dall’improvvisa manovra di un camion che taglia la strada alla Mini Minor dei ragazzi in corsia di sorpasso, manovra che nella sua dinamica non riesce a trovare alcuna logica spiegazione. Il camion è guidato da due dipendenti del principe nero Junio Valerio Borghese, il fascista al centro di tutte le trame nere di quegli anni. Nonostante le evidenti stranezze e incongruenze subito rilevate dalla Stradale e la drammaticità di un incidente che vede morire sul colpo ben quattro persone (“Muki” Borth morirà in un ospedale romano dopo venti giorni di coma profondo), le indagini sono archiviate come “tragica fatalità”. Prima di partire Gianni Aricò aveva detto alla madre: “Abbiamo scoperto cose che faranno tremare l’Italia”.
17 maggio 1973 – Milano. Strage in Questura E’ trascorso un anno dall’omicidio del commissario di polizia Luigi Calabresi, assassinato da un killer davanti alla sua abitazione. Nel cortile della questura di Milano, in via Fatebenefratelli, si è da poco conclusa una cerimonia in ricordo del funzionario, alla quale ha partecipato il ministro dell’Interno Mariano Rumor. L’auto del ministro sta uscendo dal portone centrale, quando un ordigno, scagliato da qualcuno nascosto tra la folla che si è assiepata davanti all’edificio, semina il terrore: 4 morti e 52 feriti. Lo spettacolo è allucinante. L’attentatore viene subito individuato, sottratto ad un tentativo di linciaggio ed arrestato. E’ Gianfranco Bertoli, sedicente anarchico individualista, seguace delle teorie di Steiner, ma stranamente in stretto contatto con alcuni neofascisti veneti e – lo si scoprirà dopo – in rapporti con il SID, il servizio segreto militare dell’epoca. Bertoli, appena giunto in Italia, dopo un lungo soggiorno in Israele, sarà condannato all’ergastolo con sentenza definitiva. Ma la vicenda della strage di via Fatebenefratelli avrà un imprevisto sviluppo processuale nella seconda metà degli anni Novanta, quando verranno processati e condannati alcuni neofascisti veneti, assieme ad un ufficiale con passioni golpiste, già implicato nella trama della Rosa dei Venti e ad un alto responsabile dei servizi segreti militari.
28 maggio 1974 – Brescia. Piazza della Loggia
Sono le 10 di una piovosa mattina di maggio quando, con un boato,
la tragedia dilania una piazza di Brescia, la centralissima piazza della
Loggia, dove è in corso una manifestazione sindacale. Nascosto in un
cestino dei rifiuti, un ordigno confezionato con circa un chilo di
tritolo, uccide 8 persone, ferendone altre 103. Una strage tremenda, un
massacro insensato che colpisce a freddo una città già da tempo, però,
alle prese con l’emergere di un estremismo di destra violento ed
irrazionale. Dopo la strage di piazza Fontana e quella davanti alla
questura di Milano, l’eccidio di Brescia è il terzo attacco cruento alla
convivenza civile. L’inchiesta appare subito viziata da uno stranissimo
episodio, mai del tutto chiarito: su ordine del vice questore
(responsabile dell’ordine pubblico nella piazza) Aniello Diamare, il
luogo dell’attentato viene immediatamente fatto pulire dalle autopompe
dei Vigili del Fuoco. Questo assurdo lavaggio di piazza della Loggia,
messo in atto prima ancora che un magistrato arrivi sul posto, oltre a
provocare la perdita di qualsiasi reperto utile alle indagini,
assomiglia molto, troppo, all’inopinata decisione di far brillare
l’ordigno trovato il 12 dicembre 1969, subito dopo la strage di piazza
Fontana, nella Banca Commerciale Italiana di piazza della Scala, a
Milano. Un’inchiesta, quella per la strage di Brescia, che parte subito
con il piede sbagliato, ma che è destinata a continuare anche peggio.A
tutt’oggi la strage di Brescia è una strage impunita.
4 agosto 1974 – San Benedetto Val di Sambro. Italicus Sulla linea ferroviaria Firenze-Bologna, in prossimità dell’uscita dalla lunga galleria appenninica, in località San Benedetto Val di Sambro, un ordigno ad alto potenziale, a base di “termite”, esplode in un vagone del treno Italicus, affollato di gente che si sposta per le vacanze estive. I soccorsi, difficilissimi nel buio del tunnel, estraggono dalle lamiere del treno 12 morti e 44 feriti. Si scoprirà, durante la lunga inchiesta giudiziaria che, ancora una volta, non è riuscita finora a trovare alcun colpevole, che la bomba sarebbe dovuta esplodere al centro della galleria, con un impatto di morte ancora maggiore.
27 giugno 1980 – Ustica. DC9 Itavia
Roma.
Torre di controllo di Ciampino. Ore 20, 59 minuti e 45 secondi. Sul
punto di coordinate 39°43’N e 12°55’E scompare dalla schermo radar un
velivolo civile. E’ il Dc9 I-TIGI della società Itavia, in volo da
Bologna a Palermo, nominativo radio IH870, con a bordo 81 persone, 78
passeggeri e tre uomini di equipaggio. Il controllore di turno cerca di
ristabilire il contatto con il pilota del Dc9. Lo chiama disperatamente
una, due, tre volte. A rispondergli solo un silenzio di morte. Scatta
l’allarme, ma non scattano i soccorsi che arriveranno sul punto di
inabissamento dell’aereo, a metà tra le isole di Ponza ed Ustica,
soltanto la mattina dopo. Un ritardo sospetto. Così come misteriosa è la
causa della scomparsa del Dc9. La cosa più facile? Attribuire il
disastro ad un difetto strutturale dell’aereo, un cedimento. La tesi del
cedimento strutturale del Dc9 dell’Itavia resterà per quasi due anni la
spiegazione ufficiale della tragedia, tanto che la società proprietaria
dell’aereo diventerà il primo capo espiatorio e sarà costretta a
sciogliersi. Ma in ambienti giornalistici la tesi semplicistica della
sciagura comincia quasi subito a fare acqua. Che qualcosa in questa
storia non quadri dovrebbe capirlo anche il magistrato romano al quale
l’inchiesta è affidata. Per consegnare al pubblico ministero Santacroce i
nastri di Roma Ciampino, sui quali era impressa tutta la sequenza del
volo del Dc9, fino alla scomparsa dagli schermi radar, l’aeronautica
militare impiega ben 26 giorni. Addirittura 99 per consegnare i nastri
di Marsala. Senza contare il materiale che gli verrà tenuto nascosto.
Insomma il fatto che l’arma azzurra giochi sporco di fronte alla morte
di 81 persone e che, specie all’inizio, il governo italiano sia più di
ostacolo che di aiuto all’inchiesta giudiziaria è la prima vera risposta
ad una domanda che ancora oggi in molti si pongono: chi ha abbattuto il
Dc9 di Ustica?
2 agosto 1980 – Bologna. La stazione
Le lancette
dell’orologio della sala d’aspetto di seconda classe della stazione di
Bologna si fermano sulle 10.25: è quello l’esatto momento in cui esplode
un ordigno ad altissimo potenziale. La presenza di un treno fermo sul
primo binario crea un’ onda d’urto che provoca il crollo dell’intera ala
sinistra dell’edificio. Una strage di dimensioni allucinanti: 85 morti e
200 feriti. E’ la strage più grave che si sia mai verificata in Italia,
ma anche una strage anomala perché si verifica in un momento politico
diverso e ormai lontano da quello in cui si collocano le altre stragi,
quelle degli anni Settanta. Dopo una serie interminabile di processi –
tutti molto indiziari ed ideologici, conclusisi con esiti alterni – per
la strage alla stazione di Bologna sono stati condannati con sentenza
definitiva, in quanto esecutori materiali, due esponenti dello
spontaneismo armato neofascista: Valerio Fioravanti e Francesca Mambro
che da sempre protestano la loro innocenza. Condannati, ma solo per
depistaggio, anche il gran maestro della Loggia P2 Licio Gelli e due
militari dei servizi segreti.
23 dicembre 1984 – San Benedetto Val di Sambro. Rapido 904 Ancora una strage nella galleria maledetta, la galleria di San Benedetto Val di Sambro. Proprio come dieci anni prima. Nel 1974 l’Italicus. Nel 1984 il rapido 904 Napoli-Milano. E’ un treno carico di passeggeri, in gran parte in viaggio per le vacanze natalizie, quello che una bomba travolge, devasta e distrugge: 15 morti, più di 100 feriti. E’ un’altra strage anomala. Una strage dietro la quale una lunga inchiesta e diversi processi vedranno la mano della mafia. Una strage anomala con un movente debole. Troppo debole: far saltare un treno tra Firenze e Bologna per distrarre l’attenzione di magistratura e forze dell’ordine impegnate contro Cosa nostra in Sicilia. Eppure una strage dove – come sostiene l’associazione dei parenti delle vittime – “si intravedono l’ampiezza delle logiche criminali, i collegamenti tra esse. Un attentato nel quale, al fine eversivo, fa da sfondo l’ombra inquietante dell’elemento mafioso; un nemico composito e nascosto, con molte facce”. Per la strage sul Rapido 904 sono stati condannati (sentenza definitiva) due esponenti della criminalità organizzata: Cercola e Calò.
6 dicembre 1990 – Casalecchio di Reno (Bo). Istituto Tecnico Salvemini Il 6 dicembre 1990 un aereo militare, un Aermacchi MB 326, precipita dentro la 2A dell’Istituto tecnico “Salvemini” uccidendo sul colpo dodici ragazzi e ferendone in maniera grave altri quattro oltre all’insegnante. Successivamente, a causa del carico di carburante, l’aereo esplode provocando un enorme incendio nel quale altre 72 persone, tra ragazzi e insegnanti, riportano invalidità permanenti o mutilazioni, 84 vengono ricoverati per intossicazione, ustioni e fratture. Imputati al processo sono il pilota Viviani, che si è gettato col paracadute, il suo comandante Eugenio Brega e l’ufficiale della torre di controllo Roberto Corsini. Il 26 gennaio ’98 i giudici della quarta sezione della Cassazione di Roma rigettano i ricorsi e confermano la sentenza di assoluzione, “perché il fatto non costituisce reato”, emessa un anno prima dalla Corte d’appello di Bologna.
23 maggio 1992 – Capaci. La strage di Capaci Mancano pochi minuti alle 18: una potentissima carica di esplosivo – posta sotto la carreggiata dell’autostrada Palermo – Punta Raisi, all’altezza del km 4, nei pressi di Capaci – esplode al passaggio di tre auto con a bordo, la prima – una Fiat Croma marrone – gli agenti di scorta Antonio Montinaro, 31 anni; Rocco Di Cillo, 30 e Vito Schifani, 27 (autista); la seconda, una Fiat Croma di colore bianco, il giudice Giovanni Falcone, 58 anni, la moglie Francesca Morvillo e l’autista Giuseppe Costanza, 43; chiude il corteo una terza Fiat Croma di colore azzurro – la seconda macchina di scorta – con a bordo gli agenti Paolo Capuzzo, 31 anni; Gaspare Cervello (autista), 31 e Angelo Corbo, 27.L’esplosione è talmente violenta che lo spostamento d’aria viene registrato dai sismografi dell’Osservatorio geofisico di Monte Cammarata (Agrigento).L’attentato avviene mentre il corteo di autovetture blindate si dirige dall’aeroporto alla volta della città.L’esplosione investe direttamente la prima vettura e con meno violenza la seconda, quella condotta da Falcone, con a fianco la moglie e con l’autista Costanza sul sedile posteriore.Nei momenti immediatamente successivi alla tragedia l’agente Corbo e i suoi colleghi che si trovano sulla terza auto, nonostante siano rimasti feriti, cercano di portare soccorso agli occupanti della Croma bianca. Ad eccezione di Falcone – per il quale è necessario attendere l’intervento dei Vigili del Fuoco, essendo la vittima rimasta incastrata fra le lamiere dell’auto – la dottoressa Morvillo e Costanza vengono estratti dalle vetture.Nonostante la virulenza dell’attentato tutti gli occupanti della Croma sono ancora vivi. Francesca Morvillo respira ancora, pur se priva di conoscenza, mentre Falcone mostra di recepire con gli occhi le sollecitazioni che gli vengono dai soccorritori: entrambi i magistrati moriranno in serata per le emorragie causate dalle lesioni interne determinate dall’onda d’urto provocata dall’esplosione. Costanza se la caverà con una prognosi riservata di trenta giorni.I soccorritori non riescono però a trovare la prima auto, la Croma marrone che apriva il corteo. Si pensa che gli agenti siano addirittura riusciti a sfuggire all’attentato e che sono corsi avanti a chiedere soccorsi. Solo nella serata la Fiat Croma marrone viene trovata completamente distrutta, in un terreno adiacente al tratto autostradale luogo del micidiale attentato, con i corpi dei tre occupanti privi di vita: i tre agenti erano morti sul colpo.
19 luglio 1992 – Palermo. Strage di via D’Amelio Una domenica d’estate a Palermo. Dopo aver pranzato a casa di amici, Paolo Borsellino – 51 anni, da 28 anni in magistratura, procuratore aggiunto nel capoluogo siciliano dopo aver diretto la procura di Marsala, già componente del primo pool antimafia dell’ufficio istruzione – si reca a trovare l’anziana madre che abita in via D’Amelio, in una zona a ridosso del centro della città.Non fa in tempo a scendere dalla sua auto blindata, assieme ai quattro uomini e alla donna della sua scorta, che una violenta esplosione investe l’intero gruppo. E’ la strage. Oltre al magistrato l’autobomba uccide Emanuela Loi, 24 anni, la prima donna poliziotto entrata a far parte di una squadra di agenti addetta alle scorte; Agostino Catalano, 42 anni; Vincenzo Li Muli, 22 anni; Walter Eddie Cusina, 31 anni e Claudio Traina, 27 anni. Unico superstite l’agente Antonino Vullo.La strage di via D’Amelio avviene esattamente 57 giorni dopo la strage di Capaci in cui avevano perso la vita il giudice Giovanni Falcone, sua moglie, Francesca Morvillo e tre uomini della sua scorta, gli agenti Antonio Montinaro; Vito Schifani e Rocco Di Cillo.
27 maggio 1993 – Firenze. Strage di via dei Georgofili
Nella
notte fra il 26 e il 27 maggio 1993, alle ore 1.04, a Firenze, in
un’antica via del centro storico, via dei Georgofili, ai piedi della
storica Torre del Pulci, sede dell’Accademia dei Georgofili, deflagra
un’autobomba. Si tratta di un Fiat Fiorino imbottito di 250 chilogrammi
di una miscela esplosiva composta da tritolo, T4, pentrite,
nitroglicerina. L’esplosione provoca il crollo della Torre e la
devastazione del tessuto urbano del centro storico per un’estensione di
ben 12 ettari, con un impatto che è stato definito “bellico”. Muiono
Caterina Nencioni di 50 giorni, Nadia Nencioni di 9 anni, Angela Fiume
di 36 anni, Fabrizio Nencioni di 39 anni, Dario Capolicchio di 22 anni.
Angela, custode dell’Accademia dei Georgofili, risiedeva nella Torre con
la sua famiglia. Dario, che proveniva da Sarzana e studiava
architettura a Firenze, muore trasformato in una torcia umana nella sua
abitazione, posta nell’edificio di fronte alla Torre. I feriti sono 48,
moltissime famiglie rimangono senza tetto. Viene danneggiata anche la
Galleria degli Uffizi, situata a pochi metri dalla zona dell’esplosione e
altri edifici di interesse storico-artistico. Si perdono per sempre
capolavori e preziosi documenti, ma soprattutto si perdono per sempre
cinque vite. L’ipotesi di un attentato prende corpo fin dal giorno
successivo, quando i vigili individuano il cratere che è di 3 metri di
diametro e 2 di profondità. Altrettanto rapidamente si scopre che il
Fiat Fiorino è stato rubato a Firenze in via della Scala non molti
giorni prima dell’attentato e “imbottito” a Prato. In breve tempo,
inoltre, gli inquirenti individuano negli uomini dell’organizzazione
mafiosa “Cosa Nostra” gli esecutori materiali della strage. Dopo un
lungo iter processuale vengono comminati 15 ergastoli, definitivamente
attribuiti dalla Cassazione il 6 maggio 2002. Dieci anni, però, non sono
stati sufficienti a scoprire chi ha ordinato questa strage, o,
quantomeno, chi ne era a conoscenza e non l’ha fermata perché i suoi
interessi coincidevano con quelli della Mafia.
3 febbraio 1998 – Cermis. La funivia Il giorno 3 febbraio 1998 alle ore 13.36 la missione EASY 01 costituita da un velivolo EA6B del VMAQ-2 del Corpo dei Marines degli Usa rischierato sulla base di Aviano in supporto all’operazione DELIBERATE GUARD, decollava per una missione addestrativa prepianificata di navigazione a bassa quota. […] Il velivolo EA6B della missione EASY 01 alle ore 14.13Z circa, impattava i cavi della funivia che dall’abitato di Cavalese porta al monte Cermis e che in quel punto si trovavano ad un’altezza da fondo valle stimata tra i 300 ft. e 400 ft. Il velivolo è entrato in collisione con i cavi della funivia mentre la cabina passeggeri, in fase di discesa, si trovava ad una distanza di circa 300 metri dalla stazione di arrivo. Il punto d’impatto è stato stimato a 50 metri circa di distanza dalla cabina, a valle della stessa.L’impatto provocava l’istantanea rottura dei cavi portante e traente del segmento occidentale compreso fra la stazione a valle dell’impianto ed il primo pilone di sostegno.La cabina precipitava al suolo e tutte le venti persone trasportate decedevano. Tratto dalla Relazione tecnica sull’incidente di volo occorso all’aeromobile EA6B dell’U.S.M.C. in data 03 febbraio 1998 in località Cavalese (TN).
Informazioni tratte da vari siti sulle stragi e da articoli di quotidiani italiani.