La collettivizzazione del dolore nei femminicidi

Ogni volta che un femminicidio occupa le prime pagine dei giornali, l’indignazione pubblica si riaccende. Si sofferma su dettagli macabri, sulle storie personali delle vittime, sulle lacrime di chi resta. Ma l’attenzione mediatica svanisce presto, lasciando dietro di sé il silenzio, fino alla prossima tragedia. Questo ciclo continuo di orrore e oblio ci impedisce di vedere il quadro più grande: il femminicidio non è mai un caso isolato, ma il risultato di un sistema patriarcale, machista e predatorio che lo rende possibile.
Dobbiamo smettere di considerare questi crimini come eccezioni. Ogni donna uccisa per mano di un uomo non è solo una vittima individuale, ma il simbolo di una struttura sociale che normalizza la violenza di genere. Ogni femminicidio è il prodotto di una cultura che insegna agli uomini a possedere e controllare, che disumanizza le donne e ne giustifica l’eliminazione quando non rispettano il ruolo assegnato. Questo sistema non si limita agli assassini: coinvolge le istituzioni che minimizzano le denunce, i media che colpevolizzano le vittime, la politica che non mette in atto azioni concrete di prevenzione.
La collettivizzazione del dolore è un atto di resistenza. Non possiamo permettere che il lutto resti confinato alle famiglie delle vittime: deve diventare un’urgenza collettiva, una spinta al cambiamento. Dobbiamo parlare di patriarcato, di violenza sistemica, di educazione al consenso e all’uguaglianza. Dobbiamo chiedere giustizia non solo per le singole donne uccise, ma per tutte quelle che vivono nella paura, per quelle che denunciano invano, per quelle che non possono neanche permettersi di ribellarsi.
Smettere di raccontare singoli casi e iniziare a parlare di un problema strutturale significa rompere il meccanismo dell’oblio. Significa dare voce a chi non l’ha più, per costruire una società dove il dolore non sia più l’unico linguaggio che ci resta per farci ascoltare.

Biancamaria Furci – Comitato Piazza Carlo Giuliani

04.04.2025