Dopo la morte di George Floyd, ucciso dalla polizia a Minneapolis il 25 maggio, negli Stati Uniti è nato un movimento che chiede di ridurre i fondi a disposizione della polizia o perfino di smantellare i dipartimenti di polizia. Molti attivisti, leader politici e funzionari locali propongono di riformare profondamente l’apparato di sicurezza, mentre in tutto il paese continuano le proteste contro gli abusi delle forze dell’ordine. In molti casi i manifestanti che si radunano davanti agli uffici dei sindaci scandiscono lo slogan “defund the police”, tagliate i fondi alla polizia. La frase è stampata sulle mascherine e impressa con le bombolette spray sui muri di molte città statunitensi. A Washington occupa il pavimento di un’intera piazza a pochi passi dalla Casa Bianca, che i manifestanti hanno rinominato Black lives matter plaza. La proposta circola da tempo tra gli attivisti e gli studiosi progressisti, ma ora molte amministrazioni comunali – tra cui quelle di Los Angeles e Washington – stanno prendendo seriamente in considerazione la possibilità di ridimensionare i dipartimenti di polizia e indirizzare i fondi verso programmi per le comunità.
Un cambiamento simile sarebbe un chiaro segnale di solidarietà ai manifestanti che chiedono giustizia e che considerano la polizia una forza d’occupazione.
Penso e spero che il dibattito aperto negli Stati Uniti d’America possa attraversare anche il nostro paese. Anche perché l’Italia è il paese europeo che in proporzione spende di più per la sicurezza pubblica e privata. Mai in questi anni si è valutato la produttività e l’efficienza di alcuni dei mezzi più usati per “la sicurezza”, spesso costosissimi, come gli strumenti di videosorveglianza. Tecnologie che andrebbero sostituite piuttosto con operatori sociali sul territorio. Secondo le statistiche, dal 1990 ad oggi il numero dei reati commessi in Italia sono notevolmente diminuiti, mentre è aumentato il numero delle denunce, e a finire in carcere sono sempre di più i cittadini stranieri, i poveri, i marginali. Secondo la relazione della Corte dei conti, l’80 per cento dei soldi spesi per i migranti va alla repressione, e solo il 20 per cento alle politiche di sostegno. E negli ultimi dieci anni, secondo la Fondazione Gimbe, sono stati sottratti 37 miliardi di euro alla sanità, mentre le spese militari e per la sicurezza, secondo il rapporto Mil€x, nel 2018 è salita a 25 miliardi di euro (1,4% Pil), segnando un aumento del 26% rispetto alle ultime tre legislature.
Sappiamo che la degenerazione democratica di un paese non è una cosa astratta. Nasce nelle ovattate stanze del potere ma si traduce in vita concreta, ricade a cascata in mezzo a tutti noi, prende corpo nelle strade e nei rapporti tra persone. Impossibile pensare che le contraddizioni e le tensioni di un paese in crisi non si riflettano nelle sue forze dell’ordine.
Ogni volta che un poliziotto picchia un ragazzo fermato perché aveva qualche grammo di fumo in tasca, o magari alza il manganello su un manifestante, sta creando uno strappo. La società dei diritti è uno schermo eretto a proteggerci. Ma questo schermo è sempre più a brandelli e ciò che si vede, dietro, è un vuoto spaventoso. Il famoso “fascio soft” in cui molti italiani ritengono di vivere oggi, illiberale ma non certo sanguinario, rischia di rivelarsi non così “soft” quando per ogni minimo motivo, o anche senza motivo, si rischia di incontrare il manganello di un poliziotto.
Sono passati più di diciannove anni da quando molti di noi hanno assaggiato il gusto acre del gas tossico Cs e sono stati inseguiti da frotte di poliziotti, carabinieri, finanzieri sovraeccitati lungo i vicoli di Genova. La macelleria genovese del 2001, madre di tutti i soprusi da parte delle forze dell’ordine, non ha mai avuto una seria rielaborazione da parte di questo paese. Eppure, a prescindere dalle opinioni politiche, ogni cittadino dovrebbe sentirsi turbato dall’idea di quegli avvenimenti.
Prima del G8 di Genova nel luglio 2001, in un incontro presso il Ministero degli Interni, il Genoa Social Forum e il gruppo di contatto formato da parlamentari chiedevano che la polizia in piazza non fosse dotata di armi. Una richiesta tanto più forte, per quanto era avvenuto pochi giorni prima a Goteborg, dove la polizia aveva in una manifestazione ferito gravemente un giovane. Un episodio che aveva scosso l’opinione pubblica europea. L’allora ministro dell’interno Scajola rispose che non era necessario, perché gli agenti non avrebbero mai sparato. Il seguito lo conosciamo.
Il tema del disarmo delle forze dell’ordine ha accompagnato per decenni il dibattito politico sulla necessità di una riforma in Italia.
Di Vittorio, dopo l’eccidio di Modena nel 1950, dove persero la vita 6 operai, chiese a gran voce il disarmo della polizia. E dopo l’eccidio di Avola nel 1968, il Pci condusse una vera e propria campagna in questo senso, rilanciando delle proposte di legge già depositate nel anno precedente.
Nel 1972, dopo l’uccisione a Pisa, da parte della polizia, dell’anarchico Franco Serantini, Umberto Terracini scrive parole di fuoco sul settimanale Rinascita, “chiedendo la riforma radicale dei corpi separati del potere politico, specie quelli della giustizia, della polizia e delle carceri”. Per via del suo articolo, l’anziano dirigente comunista viene incriminato per “vilipendio dell’ordine giudiziario e delle forze armate dello Stato”.
La riforma della polizia arriva solo nel 1981, ma il processo di smilitarizzazione non si è mai concluso con una vera riforma di democratizzazione. Secondo la nostra Costituzione, le forze dell’ordine hanno il compito di far rispettare i principi contenuti nella Carta fondamentale della Repubblica, indipendentemente dalle indicazioni dei governi.
Le esperienze concrete ci consegnano invece vicende inquietanti, che hanno minato più volte la fiducia dei cittadini verso le istituzioni, fino a determinare una ferita praticamente insanabile, dopo i fatti di Genova e le promozioni dei maggiori imputati della “macelleria messicana” di fatto si è sancita una sorta di impunità per gli apparati dello Stato.
Ma la storia italiana è fatta anche di contraddizioni, e di periodi in cui si prova ad invertire la tendenza all’uso della forza.
L’autunno è alle porte, la crisi economica e sociale, in piena emergenza pandemica, sta massacrando lavoratori, precari, pensionati. Ma proprio perché la pesante crisi economica può rendere incandescenti le proteste popolari, sarebbe bene mettere al bando l’uso della forza.
Di fronte all’eventualità di un’insorgenza conflittuale imponente la tentazione di ricorrere a un altrettanto imponente dispiego di forza repressiva emerge da più parti. Per questo la questione delle forze dell’ordine, dell’estensione del potere di cui dispongono e delle forme in cui lo esercitano, è così decisiva. Anche nell’Italia della Diaz e di Bolzaneto.
Carlo Cassola, che con Ernesto Balducci è stato tra i più noti esponenti della Lega per il disarmo unilaterale, scriveva: “Noi disarmisti siamo accusati di essere sognatori fuori dalla realtà. Invece siamo i soli realisti. Gli altri, i sedicenti realisti, sono solo struzzi che hanno nascosto la testa sotto la sabbia per non vedere le conseguenze scellerate della loro politica: l’imminente fine del mondo e l’attuale miseria del mondo”.
Italo Di Sabato