La patologica bulimia in materia di introduzione di nuove fattispecie penali continua a non trovare limiti, laddove le stesse vengono previste, come nel caso del cosiddetto disegno di legge sulla sicurezza, al solo fine di punire con pene rigorose i manifestanti, per di più giovanissimi e quasi mai violenti, che protestano per la tutela ambientale.
Il governo Meloni e la relativa maggioranza parlamentare si sono distinti in questa prima fase della legislatura per aver continuato a mettere al centro dell’agenda politica le leggi e gli atti aventi forza di legge in materia di sicurezza.
Dalle norme sui rave a quelle varate dopo il naufragio di Cutro, dal decreto Caivano al pacchetto sicurezza, il governo è intervenuto pesantemente sul sistema penale con aumenti di pene e l’istituzione di nuovi reati che guardano solo alla propaganda.
Tale condotta è conforme a quanto già fatto dagli esecutivi che si sono succeduti nel corso degli ultimi trent’anni. In tal senso si evidenzia che a partire dagli anni 90 la tematica della sicurezza è stata spesso cavalcata al fine di distogliere l’attenzione pubblica dalle politiche statali fatte di tagli alla spesa sociale, riduzione del welfare state e dismissione del patrimonio pubblico.
È il trionfo di una mentalità neoliberista che ormai caratterizza la struttura degli stati – o, per meglio dire, l’effettiva capacità dei governi di controllare le forze di mercato – finendo per appiattire e neutralizzare le differenze novecentesche che marcavano la destra dalla sinistra. È proprio in questa trasformazione dello stato, come mostrava il sociologo francese Loïc Wacquant, che si rintraccia sistematicamente un forte nesso tra la distruzione dello “stato sociale” e il rafforzamento dello “stato penale”.
L’uso disinvolto di misure restrittive della libertà personale quali arresti domiciliari, obblighi di dimora e di firma, e dei fogli di via che colpiscono gli attivisti che più si espongono nelle lotte per una società equa, è il segnale di un atteggiamento culturale pericoloso, fatto di chiusura e negazione di ogni dialettica: sussistono insomma gli elementi che configurano un autoritarismo in fieri, così distante dalla pretesa democratica dello stato di diritto che dovrebbe essere garantito dal dettato costituzionale.
Il tentativo di leggere, attraverso le dinamiche giuridiche, lo stato di salute della democrazia nel nostro Paese regala subito un quadro a dir poco inquietante: le pratiche di dissenso dovrebbero essere comprese e tollerate da un sistema democratico maturo, anche laddove le espressioni assumono i tratti più radicali ed al di fuori della legalità sancita dai codici. Le cronache giudiziarie raccontano l’esatto opposto, e la disamina di provvedimenti e castelli accusatori conduce alla conclusione che l’intolleranza verso ogni forma ed ogni attore del dissenso è segno di una democrazia malata, o meglio parziale.
Una più approfondita riflessione sul diritto penale ne disvela l’origine e la funzione di strumento di controllo dispiegato verso le aree deboli della società. Questa specifica natura del diritto penale si manifesta priva di ogni copertura proprio quando gli strumenti giuridici e di polizia che fornisce vengono forzati applicandoli nel senso del controllo dei conflitti politici e sociali. D’altra parte il diritto sembra rispondere ad un senso di razionalità e misura ma, seppure affondi in questi concetti le sue radici storiche, i meccanismi di attuazione restano comunque atti prevaricatori e di controllo. Le azioni giudiziarie intraprese verso l’azione politica manifesta da un lato la vera identità del codice penale, dall’altra rende necessario riportare il diritto alle sue le funzioni storiche e strutturali.
L’interazione tra la sfera del diritto e quella del dissenso politico lascia disorientati. Quali ragioni impongono la repressione della naturalezza della dialettica politica in seno alla società? Quali beni supremi sono messi in pericolo dalle condotte conflittuali? Le azioni legali adottate contro i movimenti sono il segnale di uno spostamento del bene da tutelare verso pre-poteri politici esterni alle dinamiche di trasformazione sociale: ciò che si vuole proteggere quindi non è più la tutela di un bene per la comunità, bensì una modalità ben determinata, predefinita ed immutabile dello svolgersi della vita pubblica. Non più la libertà del confronto democratico ma l’affermazione di una volontà altra che snatura la dimensione della partecipazione alla vita pubblica.
Entrando un poco nello specifico delle norme dei codici, non si può non notare come l’attuale corpus legislativo sia frutto di una stratificazione di legislazioni emergenziali: provvedimenti che nel corso di decenni sono stati adottati per fronteggiare situazioni contingenti e che hanno fornito alle autorità di polizia strumenti applicabili in forma sempre più slegata dalla magistratura. L’uso della legislazione d’emergenza ha in Italia una purtroppo lunga tradizione, e questo non fa che peggiorare un codice penale concepito sotto il regime fascista e mai riformato.
Dal punto di vista del riconoscimento ed attribuzione delle responsabilità, si può riconoscere uno slittamento dal piano singolare a quello collettivo, nel senso che si adopera sempre di più il riconducimento di un singolo all’interno di una collettività, la quale quest’ultima ne diventa aggravante; infatti dentro dimensioni collettive, dove sussiste una dialettica sociale intensa, i canoni di lettura in chiave singolare dei comportamenti sono insufficienti ed inadeguati, ed allora si cerca di colmare il vuoto estendendo i criteri di valutazione identificati per le condotte collettive.
La lente di lettura della responsabilità individuale non può e non deve essere applicata ad un corpo collettivo e plurale, ed anzi bisogna riconoscere che ogni estensione del criterio di responsabilità singolare si fa strumentale e capziosa perché ha l’effetto di giudicare ed eventualmente condannare le trasformazioni stesse della società, mettendo alla sbarra gli stessi ideali che ne stanno alla base, ancor più se contrastanti con le processualità economiche e politiche dominanti.
Il condannare, infine, atto estremo del processo penale, dovrebbe assolvere ad una funzione rieducativa: ma allora condannare le mozioni trasformative della società significa voler rieducare, ricondizionare la società tutta, esprimendo una forza di direzione esterna. Ancora una volta le azioni giudiziarie esprimono la faccia violenta del diritto penale, facendolo agire come strumento di supremazia politica sulla società ed in particolare sulle sue componenti più deboli.
La narrazione pubblica dei movimenti esclusivamente attraverso le azioni intraprese a livello giudiziario costituisce una ulteriore forma di repressione, agita questa volta sul piano simbolico. Parlare alla società criminalizzando ogni forma di conflitto e ricostruendo non solo gli avvenimenti ma anche le motivazioni ottiene lo scopo di suscitare sentimenti negativi e di rigetto nell’opinione pubblica verso ogni processo di cambiamento; al contempo si genera una linea di pensiero diffuso che è politicamente contraria ad ogni conflitto. Per di più la stampa in Italia è ben lungi dall’essere considerabile come una voce libera. Il mestiere del cronista è sempre più soggetto ad ingerenze che sfociano nella minaccia aperta. La scelta delle forme e delle fonti della narrazione da proporre al pubblico è quindi fortemente condizionata; e chi si dedica al giornalismo d’inchiesta subisce la stessa sorte di chi scende in piazza. L’azione giudiziaria sta assumendo una connotazione funzionale alla dissuasione sul singolo giornalista, che si vede deferito all’ordine e deve fronteggiare richieste talvolta ingenti di risarcimento economico avanzate per via amministrativa e non più solo per le vie legali classiche. Anche sotto questo aspetto dunque i provvedimenti posti in essere in forza del diritto sanciscono un rapporto sbilanciato tra chi fa inchiesta e chi ne è l’oggetto.
Ancora una volta, tramite ulteriori restrizioni delle libertà e dei diritti e tramite ricostruzioni a proprio vantaggio di alcuni istituti processuali, si delegano al sistema della giustizia penale quelle che sono rilevanti responsabilità dello stato in ordine a fenomeni di tipo sociale o politico sperando che tutto venga messo a tacere, che si reprima il dissenso e che si assolva lo Stato.
Un punto di non ritorno, uno spartiacque non colmabile tra chi tutti i giorni mette in pratica principi di solidarietà e uguaglianza, e chi governa. Uno spartiacque però che consente di disegnare un campo di forze eterogeneo e variegato, pronto a dare battaglia contro provvedimenti ideologici e dalle conseguenze nefaste. Una battaglia che vale la pena intraprendere rompendo steccati e orticelli, mettendo al centro il minimo comune denominatore per riaprire una partita dentro la società e anche a sinistra.
Italo Di Sabato