Dalla Mostra “Luoghi Resistenti” di Progetto Comunicazione e Socialpress realizzata nel 2007.
L’energia e le politiche energetiche italiane
L’ENERGIA
La questione energetica non è una variabile puramente tecnica, ma il dato strutturale di politica economica basata su scelte relative all’organizzazione sociale, ai suoi valori, alle tecnologie. Carbone, petrolio e gas naturale sono il motore dello sviluppo industriale. Il modello capitalistico e la produzione esasperata di merci, ha bisogno di quantità enormi e sempre crescenti di energia, l’80% della quale viene prodotta bruciando combustibili fossili. In breve tempo si raggiungerà la massima capacità di estrazione del petrolio e del gas naturale e di conseguenza la fornitura di combustibile sarà irreversibilmente minore della domanda causando seri problemi.
Inoltre è ormai innegabile che l’impiego dei combustibili fossili sia la causa principale dei cambiamenti climatici e dell’intensificarsi di eventi meteorologici estremi.
In questo contesto, la corsa all’approvvigionamento energetico, a fronte di miliardi di persone che reclamano energia per migliorare il proprio livello di vita, richiederà un ricorso crescente all’uso della forza militare.
Non è quindi possibile ragionare solo in termini di sostituzione delle fonti energetiche ma bisogna ridiscutere il concetto stesso di crescita e sviluppo. Bisogna chiedersi “quanto costa” quello che consumiamo sia in termini di intervento sull’ambiente che in termini umani ed impegnarsi in un ridimensionamento drastico e ad una ridefinizione dei consumi per non continuare a difenderli con le armi e consentire un accesso all’energia e alle materie prime conciliabile sia con la limitatezza del pianeta che con le legittime aspettative di tutti i suoi abitanti.
QUANTA CO2 SI EMETTE PER PRODURRE UN KILOWATTORA?
940 grammi da incenerimento rifiuti solidi urbani Italia
900 grammi da impianto tradizionale a carbone
800 grammi da impianti a “carbone pulito”
720 grammi da olio combustibile
650 grammi valore medio Italia 2004 impianti termoelettrici (media da fonti fossili)
530 grammi valore medio Italia 2004 (tutte le fonti)
500 grammi da gas da impianto tradizionale
370 grammi da gas da impianto a ciclo combinato
(fonte: Greenpeace)
LE POLITICHE ENERGETICHE ITALIANE
Lo scenario energetico italiano è a dir poco preoccupante perché manca un vero e proprio piano energetico nazionale. A fronte di un’economia al palo, la domanda di energia è in costante crescita mentre cala la produzione nazionale. Il fatto che quasi l’85% dell’energia viene importato crea allarmismi rispetto ad ipotetiche crisi energetiche e black-out.
I dati distribuiti dall’Enea rispetto alle fonti energetiche utilizzate in Italia nel 2000 evidenzia che si è ricorsi a prodotti petroliferi per il 50%, a gas per il 31%, a carbone per il 7%, a fonti rinnovabili per il 7% e all’importazione di energia elettrica per il 5%. La produzione di elettricità da rinnovabili è in contrazione, i fondi pubblici per la ricerca sulle nuove fonti di energia sono circa la metà rispetto al 1990 e sono per la maggior parte assorbiti dal settore nucleare. Inoltre, mentre spariscono i fondi per il risparmio energetico, compaiono quelli per l’individuazione di nuovi giacimenti di idrocarburi e per la trasformazione ed il trasporto del carbone.
In Italia i consumi di energia sono aumentati di circa il 12% tra il 1990 e il 1999 ad un tasso medio attorno al 3% annuo. Alcuni settori si sono rivelati particolarmente energivori. Infatti mentre i consumi dell’agricoltura e dell’industria sono aumentati rispettivamente del 1% e del 6%, quelli dei trasporti sono aumentati del 21% e quelli del settore terziario e residenziale del 17%.
La perdita di efficienza energetica del nostro sistema economico è dimostrata anche dal rapporto tra consumo di fonti primarie e prodotto interno lordo (minore è la richiesta di energia per produrre la stessa quota di reddito maggiore è l’efficienza energetica del sistena). Mentre l’intensità energetica globale del paese tende a diminuire (-26% negli ultimi 30 anni) in alcuni settori economici si è verificato esattamente l’opposto. Nell’agricoltura è aumentata del 23%, nei trasporti del 32%. Così mentre per il petrolio e carbone l’intensità energetica è diminuita del 40-50%, per l’energia elettrica è aumentata del 30% e per il metano addirittura del 138%.
Il crescente consumo procapite di energia non è prodotto da un incremento di benessere ma essenzialmente da una progressiva riduzione dell’efficienza energetica dell’attuale sistema economico fondato sullo spreco e la dissipazione di risorse naturali.
Fare nuove centrali termoelettriche non risolve il problema della dipendenza energetica italiana, anziché acquistare energia elettrica, dovremo acquistare più metano o altri combustibili fossili.
La liberalizzazione del mercato dell’energia ha creato una situazione in cui i giochi sono in mano a pochi protagonisti (Enel, Sorgenia, ASM e Endesa) che hanno saputo solo proporre progetti di centrali a turbocas e a carbone senza alcun rispetto per l’ambiente. anche se questo significa palesemente andare contro la logica del Protocollo di Kyoto e alle decisioni del Consiglio europeo.
IL TERRITORIO DELLE CENTRALI O CENTRALITÀ DEL TERRITORIO
In Italia ci sono 11 centrali che utilizzano carbone. Dopo l’avvio dei lavori per la riconversione della centrale di Civitavecchia e l’avanzamento del progetto su quella di Porto Tolle, ora si sta concretizzando il rischio di riconversione anche per altre centrali come gli impianti di Rossano Calabro, Piombino e Milazzo. E, come se non bastasse, vengono progettate addirittura nuove centrali a carbone come quella proposta in Valbormida a Cairo Montenotte. Se tutti i progetti in corso e le ipotesi di espansione del carbone venissero realizzate avremmo un sostanziale raddoppio delle emissioni di gas.
Il luogo più emblematico di questo problema è il comprensorio energetico di Civitavecchia che con la centrale di Torrevaldaliga nord, Montalto di Castro e Torrevaldaliga sud costituisce uno dei poli energetici più rilevanti d’Europa.
Qui la mobilitazione della popolazione prosegue ormai da molti anni nonostante l’Enel diffonda messaggi rassicuranti su un fantomatico “carbone pulito”, prometta vantaggi economici e si faccia scudo con il problema occupazionale per centinaia di lavoratori.
Le astratte ragioni di un nebuloso progresso futuro non convincono le popolazioni residenti nelle prossimità delle centrali per cui “Le decisioni strategiche rispetto ai piani di riconversione energetica devono tener conto dello stato di salute della popolazione”.
www.nocoke.altervista.org
In Italia sono in fase di progettazione una decina di centrali termoelettriche a turbogas che, pur avendo un minor impatto ambientale rispetto alle centrali a carbone o a olio combustibile, risultano meno “pulite” di quanto si ritiene, ma grazie ad una legge cosiddetta “sblocca centrali” che relega il parere comunale a un mero potere consultivo non vincolante i progetti procedono immodificati.
Così ad Aprilia, in Località Campo di Carne, Sorgenia vuole costruire una centrale a turbogas vicino ad una pericolosa industri che produce pesticidi, a meno di 300 metri dal centro abitato. Tutto questo nonostante nel territorio si riscontri un’alta incidenza di tumori tracheali e livelli di PM10 ben al di sopra dei limiti consentiti.
Inoltre, poiché il raffreddamento della centrale è ad acqua ed aria, si stima che le emissioni del nuovo impianto produrranno un aumento dell’umidità e della temperatura circostante di 2/3 gradi, e un dispendio di risorse importanti per il territorio.
Dal giorno stesso in cui si prospetta la costruzione dell’impianto parte la mobilitazione, che assume forma giuridica con la creazione dell’associazione “Rete cittadini contro la turbogas” che organizza un presidio permanente del terreno destinato alla centrale.
IL METANO CI DA UNA MANO
Un rigassificatore è un impianto che permette di trasformare il metano liquido in gassoso. Il gas, fornito da navi cisterna (metaniere), viene trasformato ed immesso nelle condutture della rete di distribuzione. In questo campo, la tecnologia operativa più avanzata (e mai realizzata sino ad oggi) è quella offshore realizzata in mare aperto, ma si tratta di tecnologie molto costose che richiedono tempi di progettazione e realizzazione prolungati.
L’Italia attualmente ha un rigassificatore in funzione a Panigaglia, alcuni progetti che hanno ottenuto le autorizzazioni ministeriali (Rovigo e Livorno), e altri progetti che devono ottenere le procedure di Valutazione di impatto ambientale (Rosignano LI, Grado GO, Taranto, Gioia Tauro RC, Porto Empedocle AG, Priolo Gargallo SR, Ravenna).
Nel piano CEE erano previsti almeno 6 gassificatori di cui due in Italia. Il governo italiano si è impegnato a realizzarne quattro (numero che copre il fabbisogno nazionale), ma è forte l’idea di sfruttare la posizione geografica della penisola per proporsi come punto di connessione rispetto all’Europa del Nord.
I costi previsti sono molto alti (dai 300 ai 500 milioni di euro) interamente coperti dallo Stato italiano che ha così azzerato il “rischio di impresa” per le società che vogliono entrare nel business del GNL.
La popolazione che si contrappone alla loro costruzione fa notare innanzitutto come la decisione sia stata presa non tenendo conto della Convenzione di Aarhus che impone la partecipazione della popolazione alla formazione delle decisioni in materia di impianti ad alto rischio ambientale sottoposti alla legge Seveso.
Il mare non è un luogo industriale. La costruzione dei serbatoi di contenimento avranno un impatto paesaggistico notevole, la procedura di rigassificazione provocherà un raffreddamento dell’acqua marina, verranno drenati i fondali per circa 4.500.000 mc di fanghi ed il cloro, aggiunto per impedire la formazione di alghe negli impianti di “vaporizzazione” del gas comporterà la grave alterazione nell’ecosistema.
Gli inceneritori
ENERGIA IN FUMO
I rifiuti sono ormai da anni al centro di tematiche politico-ambientali. In Italia, questo settore stenta a trovare una soluzione definitiva per scelte interessate a perseguire strade relativamente più brevi e imprenditoriali. In tal modo, il problema rifiuti sta acquistando dimensioni davvero insostenibili come dimostrano le ripetute crisi che interessano le nostre regioni centro meridionali.
Con l’incenerimento si perpetua una economia fondata sullo spreco, lo sfruttamento e la distruzione della natura e si trasformano materiali ancora potenzialmente utili in effluenti più tossici dei rifiuti di partenza. Gli scarti del procedimento sono circa il 25% e il loro smaltimento richiede delle speciali discariche. La scelta di costruire inceneritori comporta quindi la necessità di costruire anche discariche che richiedono accurati controlli per evitare effetti ambientali negativi. Inoltre gli inceneritori non producono energia ma la consumano. Infatti la selezione, l’essiccatura, la pressatura ed il trasporto dei rifiuti richiedono complessivamente più energia di quella ottenuta dalla loro combustione.
Il successo degli inceneritori è stato possibile grazie ad un contributo pubblico il CIP 6 per cui il maggiore costo dell’elettricità così ottenuta viene pagato dai cittadini con un sovrapprezzo nella bolletta elettrica. Da qui la moltiplicazione degli impianti che tengono in moto una catena di profitti privati perché le amministrazioni locali pagano per liberarsi dei rifiuti e i gestori degli inceneritori guadagnano perchè una parte dell’elettricità prodotta è pagata da chi l’acquista.
Gli inceneritori, oltre ad assicurare profitti ai loro proprietari, assicurano anche inquinamento all’atmosfera, al suolo, alle acque e danni alla salute dei cittadini e ai raccolti. L’entità di tale inquinamento dipende dalla qualità “merceologica” della frazione che viene bruciata. La miscela di materie incenerite è imprevedibile e mutevole nel tempo, varia da città a città, varia a seconda del processo di separazione. Tutto questo rende inefficace qualsiasi operazione di abbattimento dell’inquinamento atmosferico.
Nel 2004 si è costituita la Rete nazionale di collegamento dei comitati popolari che contrastano l’attuale politica di gestione dei rifiuti, incentrata sull’incenerimento dei rifiuti urbani e industriali.
In alternativa, la Rete propone la strada virtuosa “Rifiuti Zero”, concretamente possibile attraverso: il cambiamento del sistema di produzione delle merci nella direzione di cicli puliti, un ridotto utilizzo di materia ed energia, la riduzione dei rifiuti, in particolare di quelli pericolosi.
www.noinceneritori.org
ALT AL BUSINESS DELLA MONNEZZA
In questi anni i comitati locali si sono passati il testimone da una regione all’altra lottando contro l’insediamento di discariche e contro gli inceneritori.
La situazione della Campania ha un carattere emblematico. Qui, in 13 anni l’emergenza rifiuti è diventata la regola, e la pioggia di investimenti (più di un milione e mezzo di euro) non ha portato a soluzioni. Intanto secondo gli ultimi dati dell’OMS mostrano un aumento del 12% delle patologie di cancro rispetto alla media nazionale.
In Campania i rifiuti sono una risorsa per le imprese, per la politica, per i clan camorristici. Guadagnano le imprese di raccolta che sono tra le più quotate in Italia e in Europa, guadagnano i proprietari delle discariche, guadagnano persino le imprese del nord-est che vengono qui a smaltire i loro rifiuti. A prevalere sono state le logiche lobbistiche economiche e finanziarie abilmente supportate dall’incompetenza della classe politica che non è riuscita a chiudere il ciclo dei rifiuti. Non basta protestare, bisogna entrare nell’ingranaggio della macchina dei traffici illegali.
IDROCARBURI ABBIAMO GIÀ DATO
Il Val di Noto, territorio della Sicilia orientale, si estende tra le province di Siracusa, Ragusa, e Catania. E’ la patria del Barocco, di tesori archeologici, del mare, del sole, delle arance, del Nero d’Avola, del ciliegino Pachino, e di tante altre bellezze. Il WWF ha individuato quest’area come prioritaria per la conservazione degli ecosistemi del Mediterraneo perché presenta un habitat talmente raro da essere protetto anche a livello comunitario.
Ciononostante, nel marzo 2004 la regione emana quattro decreti che danno il via libera alle trivellazioni gas petrolifere nella zona, ma i cittadini, riuniti in vari comitati, si rifiutano di trasformare il loro territorio in un enorme complesso estrattivo rivendicando il diritto di decidere il proprio destino.
“Siamo stanchi di vedere i nostri territori saccheggiati.. Nessuno può imporci qualcosa che non vogliamo. Stiamo percorrendo, un modello di sviluppo improntato alla promozione e alla valorizzazione del patrimonio culturale e ambientale. Niente a che vedere con ricerche e trivellazioni gas petrolifere o estrazione di idrocarburi. Per questo il Val di Noto ha già dato. Non vogliamo ripetere l’esperienza dell’industrializzazione selvaggia della zona Melilli-Augusta-Priolo, tristemente nota come “Triangolo della morte”.
Il nucleare
NUCLEARE NO GRAZIE
Un discorso a parte merita la questione nucleare. In Italia è in corso una propaganda che l’atomo sia una tra le fonti meno care, pulite e sicure.
Innanzitutto le riserve di uranio possono permettere il mantenimento delle attuali centrali nucleari solo per 150 anni. Volendo incrementare la produzione di energia. Il riprocessamento del combustibile non conviene nè economicamente nè energeticamente. Quanto alle emissioni di CO2, il payback energetico del ciclo completo è, nella migliore delle ipotesi, di 4 a 1, e va rapidamente a scemare a seconda della qualità dei giacimenti. In queste condizioni, l’input energetico è tale che le emissioni indirette di CO2 sono nel migliore dei casi intorno ai 50g/KWh.
A 20 anni dal referendum con cui gli italiani hanno detto no al nucleare, la nostra eredità atomica è pesante e la sicurezza è lontana perché le scorie devono essere poste in zone sotterranee costituite da rocce geologicamente stabili, sicure da infiltrazioni e da terremoti. Nel 1999, l’allora ministro delle attività produttive, Pierluigi Bersani, ha istituito la Sogin, affidandole la disattivazione degli impianti e il trattamento dei rifiuti stoccati.
Entro il 31 dicembre 2008 si dovrà trovare una sistemazione definitiva a circa 70.000 metri cubi di rifiuti di “seconda categoria”, contenenti nuclei radioattivi che devono essere isolati dalle acque e da qualsiasi contatto con essere viventi per almeno 10 o 15 mila anni, e a circa 8.600 metri cubi di rifiuti di “terza categoria” contenenti nuclei radioattivi che devono essere sepolti e isolati per almeno 150.000 anni.
Attualmente, i principali depositi si trovano a Saluggia in provincia di Vercelli, nel centro nucleare della Casaccia, vicino Roma, nello stabilimento di Bosco Marengo in provincia di Alessandria, nel centro di ricerche di Ispra, sul lago Maggiore e nel reattore militare Cisam di Marina di Pisa.
Inoltre l’Italia si è offerta di trattare il combustibile irraggiato del reattore americano di Elk River, attualmente in deposito a Trisaia in Basilicata e deve ritirare 62 tonnellate di uranio e plutonio dal reattore francese Superphenix. Fra i rifiuti radioattivi da smaltire vi sono poi i materiali impiegati nei quattro reattori delle centrali elettronucleari costruite in Italia dal 1960 in avanti: Trino Vercellese, Garigliano, Latina e Caorso.
A Saluggia in Piemonte sono già stoccati l’80% dei rifiuti radioattivi italiani. Il comprensorio identificato è suddiviso in due aree: in una è collocato il centro ricerche energia dell’Enea, all’interno del quale si trova il deposito Eurex, mentre nell’altra è situata l’installazione radiochimica del gruppo Sorin nel cui perimetro si trova il deposito Avogadro. Si tratta di vecchi impianti realizzati fra gli anni 60 e 70 a poche decine di metri dalla Dora Baltea su un terreno ghiaioso e permeabile, a valle del quale, ad una distanza di circa due chilometri, si trovano i pozzi dell’acquedotto del Monferrato.
Qui si vogliono costruire un impianto di cementificazione delle scorie, Cemex e due mega depositi il D-3, per rifiuti solidi ad alta attività, e il D-2, per i rifiuti solidi a bassa attività per un volume esterno di 21 mila metri cubi e potrà contenere sostanze radioattive per migliaia di miliardi di Becquerel.
Dalla Stampa…
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