Il complesso delle scuole Diaz è costituito da due edifici, che nel luglio 2001 vengono assegnati al Genoa Social Forum per realizzare il media center (scuola Pascoli) e un centro di comunicazione e training (Pertini), dove vari gruppi potessero coordinare e preparare le loro iniziative. La scuola Pascoli ospita al piano terra la sala stampa e una palestra/infermeria, al primo piano le stanza di coordinamento per l’attività legale, sanitaria, e gli uffici di comunicazione del GSF, al secondo Radio Gap e altre testate giornalistiche di movimento e al terzo piano Indymedia. Nella Pertini la palestra viene adibita a zona di training e a destra dell’ingresso vengono installati alcuni computer con pubblico accesso a internet. Da giovedì 19 luglio, la Pertini diventa dormitorio per i manifestanti che non hanno trovato altro luogo dove alloggiare.
Durante tutta la settimana decine di mediattivisti lavorano presso questa struttura, consentendo a vari operatori media di raccontare quello che stava avvenendo a Genova. Sabato 21 luglio, pochi minuti prima della mezzanotte, quando il media center inizia a svuotarsi e molti manifestanti stanno già dormendo alla Pertini, circa 300 poliziotti divisi in due colonne giungono da entrambi lati di via Cesare Battisti e muovono all’assalto delle due scuole. Un mediattivista inglese, Mark Covell, viene pestato a sangue in via Cesare Battisti, proprio davanti al cancello della Pertini. Lasciato a terra, subisce altri due pestaggi e viene ridotto in fin di vita. «Ha alzato le braccia… è stato travolto immediatamente. Era un birillo, veniva sbattuto da una parte all’altra, ricordo parecchi calci, ricordo molto bene le scarpe di queste persone perché erano scarponi grossi. I primi lo hanno spintonato, poi si sono richiusi su di lui; tutti quelli che passavano lo malmenavano in un modo o nell’altro» (M. B. – infermiera del GSF) Nella Pascoli la furia dei poliziotti si indirizza soprattutto contro i computer di legali, medici e mediattivisti. I locali vengono perquisiti, mentre le persone vengono fatte sedere contro il muro e con la faccia a terra e alcune malmenate. Per le persone che si trovano nella Pertini è l’inizio di un incubo. Al termine dell’operazione vengono arrestati tutti i 93 presenti (purtroppo solo pochi sono riusciti miracolosamente a scappare).
Circa 70 i feriti, tre in condizioni gravissime, di cui uno in coma. 75 di loro, vengono portati alla caserma di Bolzaneto. «Sono rimasta ancora con le mani alzate davanti a tutti questi poliziotti che hanno iniziato subito a picchiarmi con i manganelli sulle spalle e sulla testa. Credo di essere caduta quasi subito, ero sdraiata con la schiena verso la Polizia e mi hanno colpito, mi hanno dato dei calci nella schiena, sulle gambe, mi hanno picchiato sul lato con i bastoni ho cercato di pararmi dai colpi mentre mettevo le braccia sopra alla testa … poi mi ha raccolta la Polizia e mi hanno buttato verso il muro, alla parete c’erano dei ganci per poter appendere delle giacche e avevo la sensazione che mi potevano entrare questi ganci mentre mi buttavano contro e poi un poliziotto mi ha picchiato con il ginocchio tra le gambe, hanno continuato a picchiarmi e io sono scivolata giù dal muro, dalla parete, quando ero già per terra hanno continuato a colpirmi, avevo la sensazione che loro si divertissero mentre mi stavano picchiando e gemevo quando mi colpivano sullo sterno e avevo la sensazione che loro fossero divertiti». (L. Z. – testimonianza del 9 novembre 2005) «I funzionari sono entrati dopo la fase del pestaggio nella palestra, però io mi ricordo perfettamente che continuavano ad essere trascinati giù in palestra ragazzi o persone che erano nei piani superiori e contro questi i poliziotti continuavano ad accanirsi, continuavano a picchiarli e questi funzionari erano dentro alla palestra quando questo è successo, io mi ricordo molto bene anche del fatto che ad un certo punto, mentre appunto qualcuno picchiava ancora qualcuno di noi, questi funzionari si sono girati dall’altra parte, me lo ricordo bene perché io questo… proprio in quel momento l’ho interpretato come un gesto, come un voler chiudere un occhio di fronte a una marachella che stavano compiendo questi poliziotti». (V. B. – testimonianza del 17 novembre 2005).
«Ho visto questi gruppi di agenti che sono entrati di corsa, ricordo che urlavano, si sono diretti subito sulle persone che si sono trovate di fronte. Quindi ho visto questi primi agenti che si sono rivolti verso di loro, hanno cominciato a prenderli a calci, a manganellate, urlavano, ricordo che sputavano, insulti, e poi alcune frasi, qualcuna la ricordo, altre no. Hanno cominciato a pestare a calci, a manganellate le persone che si trovavano di fronte. Hanno preso di mira i ragazzi che avevo alla mia destra, la ragazza in particolar e che era quella più vicina, proprio affianco… che io avevo affianco, è stata presa con un calcio alla faccia, quindi è stata spinta indietro, è un po’ barcollata, sì è piegata con la schiena all’indietro, il ragazzo che aveva affianco è stato raggiunto da delle manganellate, erano due gli agenti in questo momento che si sono rivolti contro questa coppia». (L. G. – testimonianza del 16novembre 2005). Dal verbale di arresto risulta che sabato 21 luglio, verso le ore 21.30, un pattuglione composto da quattro auto della PS, due in borghese e due con i colori di istituto, tra cui un Magnum, transita davanti alle due scuole, in via Cesare Battisti e secondo la versione della Polizia subisce “un fitto lancio di oggetti contundenti da parte di numerose persone, verosimilmente appartenenti alle Tute Nere”. Questo episodio legittima un intervento urgente di iniziativa autonoma della Polizia Giudiziaria secondo quanto previsto dall’articolo 41 TULPSS (testo unico di pubblica sicurezza): “in considerazione della concreta possibilità che proprio l’edificio scolastico in argomento fosse il rifugio delle frange estreme delle “Tute Nere”, si predisponeva un adeguato programma d’intervento finalizzato alla ricerca di armi e materiale esplodente che in quel luogo poteva essere occultato” (dal verbale di arresto).
La situazione risulta però fortemente ridimensionata già nei primi interrogatori dei componenti del pattuglione. Un agente arriva ad affermare di non ricordare la presenza del Magnum, che secondo la relazione di servizio di un altro componente “veniva bersagliato inizialmente da un fitto lancio di pietre di grosse dimensioni provenienti da varie direzioni, tanto da procurare una crepa sul vetro blindato ed una ammaccatura sullo sportello anteriore, poi venivano letteralmente assaliti e bloccati sul posto dalla folla inferocita che inveiva contro di loro continuando a bastonare l’auto e tentando di aprire gli sportelli mentre provavano a ribaltare il mezzo”. I testimoni fino ad ora ascoltati in udienza concordano nel ricordare urla da parte di alcuni presenti contro le auto della PS ed il lancio di una singola bottiglia. L’irruzione alla scuola Diaz viene decisa a seguito di questo episodio dai massimi vertici della polizia presenti a Genova per il G8, nel corso di due riunioni tenute quella sera in Questura: durante la prima si delibera di procedere, nella successiva si concordano i dettagli operativi.
A presiederle, il prefetto Arnaldo La Barbera, capo della polizia di prevenzione, incaricato dal Capo della Polizia di raggiungere la città di Genova proprio quel pomeriggio, quando il Vertice G8 volgeva al termine. Presenti Gratteri (capo dello SCO), Calderozzi (suo vice), Murgolo (vicequestore di Bologna), Mortola (capo della Digos genovese), che effettua un sopralluogo alle scuole constatando la presenza di un nutrito gruppo di persone che stazionava, rumoreggiando e bevendo birra. Canterini (capo del Reparto Mobile Roma), informato da Donnini (dirigente superiore responsabile del coordinamento operativo e logistico dei Reparti Mobili per i servizi di ordine pubblico durante il G8) della necessità di radunare il suo reparto e impiegarlo per favorire l’entrata nella scuola del personale della squadra mobile, partecipa alla seconda riunione. Il vicecapo della polizia, prefetto Ansoino Andreassi, manifesta le sue perplessità e non partecipa alla riunione operativa. Del resto, inviando a Genova La Barbera, De Gennaro aveva praticamente sfiduciato Andreassi, che in seguito verrà a conoscenza di un provvedimento del Ministro degli Interni che indicava la sua rimozione da vicecapo della polizia e il suo trasferimento ad altro incarico dal 1 luglio 2001.
Andreassi rileverà in aula che già dalla riunione in Questura era chiaro che l’operazione alla Diaz dovesse essere finalizzata non solo al controllo delle persone, ma anche alla possibilità di effettuare arresti consistenti di appartenenti alle frange degli estremisti più violenti. «D’altronde esiste una regola non scritta per cui se ci sono delle violenze o disordini che non si è riusciti a prevenire,questi devono essere compensati da un numero maggiore di arresti di chi li ha commessi». (A. Andreassi – testimonianza del 23 maggio 2007). Tutte le 93 persone presenti nella scuola vengono arrestate per associazione a delinquere finalizzata alla devastazione e al saccheggio, come risulta dal verbale di perquisizione e sequestro che attesta il ritrovamento di armi improprie e di due molotov. I giudici genovesi però non convalidano gli arresti, anzi formalizzano una denuncia sulla base delle dichiarazioni rese dagli arrestati che descrivono in maniera univoca una situazione di violenze indiscriminate contro persone inermi. E trasmettono gli atti alla procura della Repubblica. I pubblici ministeri Enrico Zucca e Francesco Pinto, ai quali si aggiungono Francesco Cardona Albini, Monica Parentini, Patrizia Petruzziello e Vittorio Ranieri Miniati iniziano così le indagini, che porteranno alla richiesta di rinvio a giudizio per 29 poliziotti.
Uomini vicinissimi al capo della polizia, come Francesco Gratteri (oggi capo della Direzione Centrale Anticrimine), dirigenti di primo piano come il capo degli analisti della polizia di prevenzione, Giovanni Luperi (coordinatore della task force europea che indaga sugli “anarcoinsurrezionalisti”), investigatori come Gilberto Calderozzi (oggi Direttore del Servizio Centrale Operativo – SCO), Filippo Ferri (allora capo della squadra mobile di La Spezia, poi promosso capo di quella di Firenze) e Fabio Ciccimarra (imputato anche a Napoli per le violenze sugli arrestati nella Caserma Raniero a maggio del 2001). Insieme agli altri firmatari dei verbali, Spartaco Mortola, oggi vice Questore di Torino, il vicequestore Massimiliano Di Bernardini (nucleo antirapine, Squadra Mobile di Roma), il vicequestore Pietro Troiani e l’agente Alberto Burgio devono rispondere di abuso di ufficio per la gestione dell’intera operazione nonché dei reati di falso e calunnia in relazione al falso ritrovamento delle due bottiglie molotov, il caso più eclatante di fabbricazione di prove false a carico degli arrestati. Per il pestaggio all’interno della Diaz sono imputati di lesioni personali in concorso Vincenzo Canterini (successivamente promosso Questore, Michelangelo Fournier e gli otto capisquadra Fabrizio Basili, Ciro Tucci, Carlo Lucaroni, Emiliano Zaccaria, Angelo Cenni, Fabrizio Ledoti, Pietro Stranieri e Vincenzo Compagnone.
Le immagini, le relazioni di servizio dei capisquadra, incrociate con le deposizioni delle parti offese, che in qualche caso hanno potuto riconoscere le divise, indicano che i settanta celerini romani, il “VII nucleo”, speciale squadra antisommossa creata appositamente per il G8, sono entrati per primi, ma al pestaggio hanno preso parte anche decine di poliziotti in divisa e in borghese, mai identificati. «Mentre ci picchiavano mi ricordo che avevano questi caschi azzurri, in più mi ricordo che avevano dei vestiti imbottiti e dei guanti imbottiti, stivali e fazzoletti bordeaux che si sono tirati fino sopra il naso, inoltre mi ricordo dei tonfa da loro utilizzati, questo lo so benissimo, me lo ricordo particolarmente bene perché io ero seduto a terra e ho visto questi pugni coperti da guanti imbottiti che tenevano questo manganello che poi hanno alzato per picchiarci.» (D. A. – testimonianza del 17 novembre 2005) L’agente del VII nucleo Massimo Nucera, è accusato di falso e calunnia perché “falsamente attestava di essere stato attinto da ignoto aggressore con una coltellata vibrata all’altezza del torace, che provocava lacerazioni alla giubba della divisa indossata e al corpetto protettivo interno, così avvalorando quanto descritto negli atti di arresto e di perquisizione e sequestro circa il comportamento di resistenza armata posta in essere dagli arrestati” (dalla richiesta di rinvio a giudizio, 3 marzo 2004). Un ultimo gruppo di funzionari e agenti è chiamato a rispondere di perquisizione arbitraria, danneggiamento, furto e lesioni personali per aver fatto irruzione nella scuola di fronte, la Pascoli, che ospitava il Media Center del GSF.
Computer distrutti, hard disk asportati, in particolare dai computer degli avvocati, materiale video e fotografico sottratto. Gli imputati per questi fatti sono Salvatore Gava, Capo della Mobile di Nuoro, il napoletano Alfredo Fabbrocini e Luigi Fazio, della mobile romana, quest’ultimo accusato anche di percosse a un giovane tedesco. Il capo della Polizia Gianni De Gennaro è costretto a nominare tre super-ispettori per altrettante rapide indagini amministrative interne: una sugli incidenti di piazza, una sulle torture nella caserma di Bolzaneto e una appunto sulla Diaz, affidata al Questore Giuseppe Micalizio. In pochi giorni Micalizio conclude che l’operazione è stata organizzata in modo confuso e disorganizzato e che l’ingresso dei poliziotti è avvenuto senza la guida dei funzionari. «Risulta evidente che la fase organizzativa è stata predisposta in maniera molto approssimativa e carente sotto il profilo dei momenti direzionali connessi con l’emanazione di specifiche disposizioni operative, sulla base delle quali gestire l’intervento in argomento». «Si sottolinea come lo stesso ingresso degli operatori all’interno dell’edificio sia avvenuto in maniera caotica e soprattutto senza una precisa guida da parte dei Funzionari». «Non va infine trascurata la scarsa ponderatezza della decisione di impiegare il Nucleo Sperimentale Antisommossa in una operazione che ben poteva essere condotta a termine da altre unità del Reparto Mobile» (Relazione Dott. Pippo Micalizio, 31 luglio 2001) Scattano tre provvedimenti di peso.
Vengono rimossi dai loro incarichi il vicecapo vicario della polizia Ansoino Andreassi (passato a vice direttore del Sisde), il numero uno dell’antiterrorismo Arnaldo La Barbera (poi promosso vice del Cesis) e il Questore di Genova Francesco Colucci (oggi al Cesis), mentre per Canterini si propone la destituzione dalla Polizia di Stato, ma la proposta resta lettera morta. Ci vorranno mesi per i magistrati che si occupano del caso per identificare i quattordici poliziotti firmatari dei verbali: anzi tredici, perché la quattordicesima firma rimarrà indecifrabile. Non è stato inoltre possibile avere un elenco completo degli agenti che hanno partecipato alla perquisizione, e le foto identificative che la Polizia trasmette alla Procura sono spesso di molti anni prima. La svolta nelle indagini arriva nel novembre 2001. I PM rilevano che Pasquale Guaglione, vicequestore a Gravina di Puglia (Bari) in servizio a Genova per il G8, riferisce di aver consegnato a un reparto della polizia due bottiglie molotov rinvenute in Corso Italia durante i disordini nel tardo pomeriggio del 21 luglio. Guaglione lo scrive nella relazione di servizio, ma manca il verbale di sequestro delle due molotov (considerate armi da guerra dal codice).
L’assenza di questo verbale insospettisce i PM Pinto e Zucca, che decidono di interrogare Guaglione per rogatoria dalla procura di Bari. Al funzionario vengono mostrate le due molotov sequestrate alla Diaz, omettendo che fossero proprio quelle provenienti dalla scuola. Guaglione le riconosce subito come quelle ritrovate in corso Italia, perché ricorda le etichette di noti vini e riferisce di aver consegnato i due ordigni, poco dopo il ritrovamento, al dott. Donnini, che li ripone all’interno di un mezzo blindato, lo stesso con cui giungerà in via Battisti. La circostanza è confermata da Donnini, che sostiene tuttavia di non essersi più occupato delle bottiglie, rimaste a bordo del Magnum fino al suo arrivo in Questura. E proprio dal Magnum di Donnini, guidato dall’agente Michele Burgio (che successivamente ai fatti si è dimesso dalla Polizia), con a bordo il vicequestore Pietro Troiani, le due bottiglie incendiarie finiscono alla Diaz. Nel giugno del 2002 i PM individuano un filmato dell’emittente genovese Primocanale, che mostra il gruppo dei funzionari più alti in grado nel cortile della scuola Diaz con il sacchetto azzurro contenente le due molotov. Si capisce così in quali mani sono finite le due bottiglie, portate dall’agente Burgio su ordine del vicequestore Troiani. Attorno al sacchetto azzurro il video mostra Luperi, Caldarozzi, Murgolo, Gratteri, Canterini. Nessuno di loro, fino a quel momento, aveva ammesso di aver visto le molotov nel cortile. I PM mostrano il filmino agli autorevoli indagati. Luperi, dopo aver visto l’episodio, perde la parola: da quel momento si rifiuta di rispondere. Gratteri risponde ancora e se la prende con il reparto di Canterini. Sa che non potrà evitare la richiesta di rinvio a giudizio. L’unico che si salva è Lorenzo Murgolo, l’ex vicequestore di Bologna oggi al Sismi, il servizio segreto militare. I PM chiedono l’archiviazione perché Murgolo è presente per rappresentare il Prefetto Andreassi, rimanendo al di fuori delle due catene di comando individuate dall’indagine: quella degli uomini delle squadre mobili, facente capo ai dirigenti dello SCO Gratteri e Calderozzi, e quella degli uomini delle Digos facente capo ai dirigenti della polizia di prevenzione,
La Barbera e Luperi. Gli interrogatori chiariscono che le molotov sono arrivate nel cortile portate da Burgio su ordine di Troiani. Secondo Troiani, assistito dall’avvocato Alfredo Biondi (senatore di Forza Italia ed ex Ministro della Giustizia), le due bottiglie finiscono in mano a Massimiliano Di Bernardini, suo pari in grado. Quest’ultimo ammette di averle viste nel cortile in mano ad altri, ma nega di averle prese. Tutti gli indagati sostengono, pur essendo investigatori esperti, di non essersi informati sulla provenienza di quelle “armi da guerra”. Dove erano state trovate? Da chi? Nel verbale di sequestro si legge: «n. 2 bottiglie contenenti liquido infiammabile e innesco, (cosiddette “molotov”); a tal proposito si fa rilevare che le bottiglie si trovavano nella sala d’ingresso ubicata al pian terreno». Questa circostanza, quindi, al termine dell’indagine, risulta falsa e calunniosa. Non è l’unica, peraltro: nei verbali le stecche degli zaini sono indicati come spranghe, armi improprie, e un ricco catalogo di altri oggetti atti a offendere è ricavato dagli attrezzi del cantiere che si trovava all’interno della scuola in un locale chiuso prima dell’arrivo della polizia. Nel maggio del 2002 i PM ricevono la perizia del RIS (Reparto Investigazioni Scientifiche) dei carabinieri di Parma, relativa al giubbotto e al corpetto antiproiettile di Nucera, che aveva dichiarato di aver ricevuto una coltellata da un manifestante durante l’irruzione alla Diaz.
Nella relazione del Colonnello Garofano si legge che le prove sperimentali di taglio effettuate hanno sempre dimostrato un pressoché perfetto allineamento tra le lacerazioni presenti sul giubbotto e quelle sottostanti prodotte sul paraspalle. Al contrario i tagli presenti sul giubbotto non risultano allineati a quelli sottostanti presenti sul paraspalle. Esiste pertanto una evidente incompatibilità tra i tagli presenti sugli indumenti in reperto e quelli ottenuti sperimentalmente secondo le dinamiche che è stato possibile evincere dalle affermazioni di Nucera. L’agente Nucera cambia quindi versione: a quindici mesi dai fatti dice che le coltellate erano state in realtà due. Successivamente, con la procedura dell’incidente probatorio, interviene una seconda perizia, affidata dal GIP al dottor Carlo Torre, già responsabile di aver inquinato l’indagine sull’omicidio di Carlo Giuliani suggerendo la tesi del calcinaccio assassino che avrebbe deviato il proiettile. A giudizio di Torre il secondo racconto di Nucera è compatibile con i tagli riportati su giubbotto e paraspalle. Per i periti delle persone offese gli indumenti riportano lacerazioni che fanno pensare ad almeno quattro distinti colpi. Intanto il 12 maggio del 2003 il giudice per le indagini preliminari Anna Ivaldi, su richiesta del PM, decreta l’archiviazione delle accuse a carico dei 93 per i reati di associazione e resistenza aggravata. Le udienze preliminari contro i poliziotti si aprono il 26 giugno 2004 e il 13 dicembre 2004 il Giudice dell’Udienza Preliminare Daniela Farraggi rinvia a giudizio tutti i 29 indagati per tutti i capi di imputazione: una vittoria politica importante e niente affatto scontata. Il 6 aprile 2005 si apre il processo, che entra nel vivo nell’autunno del 2005 proseguendo con 2 udienze settimanali. Il collegio del GLF è composto da circa 40 avvocati. I 93 arrestati alla scuola Diaz sono parti offese nel procedimento e sono stati ascoltati come testimoni del PM.
Le testimonianza sono drammatiche. A distanza di cinque anni emergono ancora vividamente il terrore e il senso di impotenza di fronte a una violenza inaudita e ingiustificata. Nel gennaio di quest’anno i difensori degli imputati chiedono che vengano mostrate in aula le bottiglie molotov, ma si scopre che non sono né nella disponibilità della Procura e nemmeno della Questura. Potrebbero essere state distrutte per errore insieme ad altro materiale esplodente. Secondo la difesa, senza il corpo del reato il processo potrebbe finire. Ma il tribunale presieduto da Gabrio Barone dichiara infondate le eccezioni sollevate dagli avvocati dei poliziotti, e ordina le prosecuzione del processo.Gli unici imputati che hanno deciso di sottoporsi all’esame davanti al Tribunale di Genova sono stati Vincenzo Canterini, allora comandante del I Reparto Mobile di Roma e Michelangelo Fournier, suo vice, che quella notte comandava il VII nucleo sperimentale antisommossa, entrambi imputati di concorso in lesioni personali. Quest’ultimo fornisce una nuova versione – contraddicendo quando raccontato nei precedenti interrogatori di fronte ai pubblici ministeri – su quanto accaduto nella scuola al momento della sua irruzione: non manifestanti già feriti a terra, ma veri e propri pestaggi ancora in atto. «Durante le indagini non ebbi il coraggio di rivelare un comportamento così grave da parte dei poliziotti per spirito di appartenenza», dichiara.
Arrivato al primo piano dell’istituto, vede alcuni poliziotti infierire contro manifestanti inermi a terra: «Sembrava una macelleria messicana». Aggiunge di non aver fermato gli agenti e di non aver potuto riconoscerli perché non facevano parte del suo reparto. Altre novità emergono il 3 maggio, durante la deposizione di Francesco Colucci, l’allora Questore di Genova. Tra amnesie e contraddizioni presenta in aula una versione dei fatti differente da quella ricostruita nelle indagini, affermando che quella notte, a coordinare l’operazione fu Lorenzo Murgolo, inviato alla Diaz dal vicecapo della Polizia Ansoino Andreassi. Dichiara inoltre che fu una sua iniziativa quella di telefonare al capo ufficio stampa della Polizia Roberto Sgalla per chiedergli di andare alla Diaz; non gli fu quindi ordinato dal capo della Polizia Gianni De Gennaro, come invece sostenuto nei precedenti interrogatori e davanti alla Commissione parlamentare di indagine. Gli obiettivi della testimonianza sembrano voler cancellare le responsabilità del capo della polizia e dei funzionari imputati e ribaltare la catena di comando sostenendo che per la mattanza alla scuola Diaz si sarebbe dovuto indagare sull’unico dirigente presente ai fatti che sia stato archiviato dopo l’inchiesta, proprio Lorenzo Murgolo, che successivamente, chiamato a testimoniare, si è avvalso della facoltà di non rispondere. A seguito di questa deposizione la procura di Genova apre un procedimento contro Colucci per falsa testimonianza. Finisce nell’inchiesta anche l’ex capo della Polizia Gianni De Gennaro, che – secondo la Procura – avrebbe concorso con l’ex questore nel reato di falsa testimonianza, istigandolo a dire il falso, usando il rapporto gerarchico che c’è tra i due.