Il progetto intende rafforzare le donne colombiane Wayùu, attraverso la realizzazione di una sede per la loro organizzazione. I Wayùu sono un’etnia di circa 300mila persone, metà delle quali vivono in Colombia e l’altra metà in Venezuela. In Colombia abitano la regione della Guajira, una della zone maggiormente minacciate da grandi megaprogetti idroelettrici, petroliferi e per il controllo dell’acqua. In questa regione negli ultimi dieci anni sono andate sempre più intensificandosi le azioni militari e paramilitari per il controllo dei territori, con i conseguenti sfollamenti forzati, scomparsa di leaders indigeni, omicidi, stupri, azioni di intimidazione e continue violazioni dei diritti umani.
Le donne wayùu, principali vittime di abusi da parte dei gruppi armati, sono anche quelle che maggiormente si sono organizzate per rafforzare l’identità della propria etnia, mantenere l’unità delle loro comunità e l’organizzazione della loro società, basata su una struttura matrilineare.
Disporre di una sede per l’organizzazione permetterà loro di avere uno spazio per l’incontro, la formazione, la raccolta e la diffusione delle denunce relative al popolo Wayu’u. Il progetto intende inoltre sostenere le azioni volte al rafforzamento della rete con gli altri movimenti indigeni del paese e con il resto del popolo Wayu’u.
Il progetto è stato realizzato anche grazie ad una consistente donazione del Comitato Piazza Carlo Giuliani.
La casa delle donne Wayùu è stata inaugurata la prima settimana di settembre 2007, durante la Missione di A Sud in Colombia, alla quale ha partecipato anche il Presidente del Comitato Piazza Carlo Giuliani.
Qui di seguito il diario di viaggio del nostro Presidente!
Diario della missione nella Guajira
Domenica 2 Settembre 2007 ore 18 atterro all’aeroporto di Bogotà. E’ la prima volta che metto piedi nell’America latina, quel continente che tanta parte ha avuto nelle mie scelte di vita umana, cristiana, politica.
Il primo incontro è con l’indigeno Luis Evelis Andrade, presidente della Onic, l’organizzazione nazionale indigena colombiana che raggruppa parecchi dei 92 popoli nativi e rappresenta circa 1 milione e 300 mila persone.
A sera ci porta a cena in una sede sicura; da quando infatti è dovuto fuggire dal Chocò, perché ricercato, in quanto difensore dei diritti dei popoli indigeni, è sempre sotto sorveglianza. Con lui, a tempo pieno nel lavoro sociale a difesa dei popoli indigeni, intesso subito una lunga conversazione e scopro che conosce Gustavo Gutierrez, Leonardo e Clodovis Boff, Frei Betto e tanti altri teologi della liberazione ma che da tempo non ha alcun rapporto con la gerarchia ecclesiastica colombiana che lui definisce reazionaria e collusa con i poteri forti locali.
Lunedì 3 settembre prendiamo l’aereo per giungere a Valledupar nella regione del César ai confini della Guajira, territorio dove si svolgerà la missione dell’associazione A Sud con l’accompagnamento della senatrice Giovanna Capelli, in rappresentanza del PRC-SE e mio, in rappresentanza del Comitato Piazza Carlo Giuliani Onlus. A venirci incontro, eccetto gli autisti delle auto, sono tutte donne appartenenti al popolo Wayùu, che sprigionano una grande gioia e una vigoria fondata su una pratica quotidiana di autonomia e di autogoverno; ti accorgi subito che siamo in un territorio dove la forza delle donne è centrale nella vita e nella storia anche drammatica di questa regione, soprattutto di questo popolo della grande famiglia Arawak, che costituisce quasi il 50% degli abitanti della Guajira. Alcune di queste donne, Karmen, Evelin, Silza, ci accompagneranno con Luis durante tutta la missione facilitandoci l’incontro con le comunità wayùu.
La prima tappa è il “resguardo” di Provincial nelle vicinanze di Barrancas, una sorta di riserva indigena a pochi chilometri dal Cerrejon che, oltre ad essere il monte che domina sulla valle, dà il nome alla più grande miniera di carbone a cielo aperto del mondo, proprietà dell’impresa Drumond che ha iniziato le sue attività a partire dagli anni ’80.
Siamo accolti con la rappresentazione del tipico ballo wayùu e consumiamo un pasto tipico dei giorni di festa con capretto, riso, yucca e banane fritte.
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Ascoltiamo quindi le voci della comunità formata da 480 persone:
“Dall’arrivo della miniera – ci dicono- le nostre comunità sono piombate ancor più nella povertà, non siamo più sicuri sulle nostre terre, militarizzate per favorire gli interessi delle imprese le cui attività inquinano l’aria che respiriamo e l’acqua che beviamo, cosicché si è diffuso il dengue e altre malattie delle vie respiratorie e delle vie intestinali.
Ci hanno anche devastato i luoghi della memoria culturale e del patrimonio spirituale.
Oltre a ciò, la diga costruita sul fiume Rancheria invece di risolvere il problema della mancanza dell’acqua ha portato come conseguenza 40 tonnellate di pesci morti e case senz’acqua, case le cui pareti sono di fango e i tetti di semplice lamiera, facilmente divelta quando arriva una pioggia con forte vento. Ma tutto ciò non ci farà desistere dalla lotta”.
Salutiamo tutte e tutti promettendo di farci carico delle loro denuncie presso il parlamento italiano ed europeo utilizzando tutti i possibili canali della politica.
Alla sera ci accampiamo nella modesta casa di Paula che da qualche giorno ha dato alla luce un bambino al quale ha dato anche il nome di Carlito a sottolineare lo stretto rapporto che si è instaurato tra la Genova del Comitato e l’associazione delle donne Wayùu.
Martedì 4 mattina siamo nella comunità di Prai Wepiapàa, nel municipio di Dibulla, non molto lontano dall’oceano Pacifico: 36 famiglie un totale di 210 persone sfollate dalla Sierra, come altre in Colombia, a causa dell’occupazione del territorio da parte dei paramilitari del tristemente famoso Bloque Norte; vivono lì da 2 anni in condizioni di semischiavitù in un pezzo di terra, proprietà di un “finquero”, in cambio del lavoro “prestato gratuitamente” nei suoi campi di mais. Le loro condizioni materiali sono molto pesanti: nessun accesso ai servizi di base, senza acqua potabile, senza mezzi di trasporto, incertezza sul futuro perché i 20 milioni di dollari stanziati dal governo per ricollocare le comunità indigene sfollate non sono ancora diventati un reale progetto di ricollocazione in quanto sulle terre teoricamente assegnate vi sono gli appetiti famelici di grandi imprese che vogliono costruire porti a scopo turistico o realizzare piantagioni di banane su vasta scala.
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Mobilitarsi, scioperare – dice la coordinatrice – oltre che impossibile per l’isolamento dalle altre comunità, è rischiosissimo perché in agguato ci sono sempre gli squadroni della morte, che violentano e ammazzano sapendo di rimanere impuniti.
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Ci chiediamo costernati come sia possibile tutto ciò in un paese che si dice democratico!
Nel pomeriggio ci rechiamo a Manaure nella Tierra del Sal per osservare una scena da medioevo servile: uomini del popolo Wayùu che lavorano a cottimo ciascuno un pezzo della vasta salina, con una semplice carriola e una pala, sotto un sole che brucia e corrode la pelle, nella speranza di riuscire a guadagnare il minimo per la sopravvivenza; minacciati e ricattati non possono ancora dare vita ad un’organizzazione sindacale che li tuteli.
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Alle 18.30 le maestre e le ragazze del collegio di Uribia ci accolgono con grande simpatia e ci offrono un’ animazione teatrale finalizzata a farci conoscere momenti della tradizione familiare e comunitaria del popolo Wayùu: il rito di iniziazione e di ingresso nella società delle ragazze e le modalità di risoluzione dei conflitti che avvengono nel seno della comunità, il principio regolatore chiamato “sukuaipa”. Siamo tutte e tutti coinvolti nel ballo tipico wayùu; alla fine riesco a parlare con delle ragazze e mi stupisce la consapevolezza che hanno del compito futuro che le aspetta; allora mi viene da pensare e da sperare che non è lontano per la Colombia il tempo di una nuova classe dirigente.
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Mercoledì 5 settembre, ci dirigiamo verso Macao, una cittadina non molto lontana dal territorio venezuelano, per incontrare nella riserva di Mashou le comunità più colpite dalla violenza omicida del paramilitarismo, con la copertura attiva o passiva di apparati militari statali. All’ombra di un albero più che centenario, parecchie donne si alternano per raccontare le tragiche storie che le hanno colpite: storie di saccheggi, di incursioni notturne, di furti, di intimidazioni, di stupri, di accuse infondate di appoggio alla guerriglia, di limitazione alla mobilità. Sapevo che mi attendeva un’esperienza drammatica, ma mai come quella che ho vissuto ascoltando la voce e guardando il volto di madri cui hanno ammazzato figli, di mogli cui hanno ucciso i mariti, di donne cui hanno tolto ogni speranza di vivere, di ragazzi strappati alle famiglie che ancora oggi non sanno dove siano stati portati. Ben duecento crimini sono stati commessi in questa zona negli ultimi anni da parte dei paramilitari, che, nonostante la smobilitazione prevista dal governo, nei territori indigeni hanno solo cambiato nome, continuando le loro azioni di sopruso, tese a terrorizzare e a distruggere la rete organizzativa delle comunità indigene.
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Eppure in questo deserto, titolo che Karmen Ramirez Boscan dà al suo libro nel quale parla appunto dei crimini perpetrati nei confronti del suo popolo, cresce la pianta della forza di tante donne decise con una lotta nonviolenta a difendere il patrimonio territoriale, sociale, culturale e religioso del loro popolo da ogni prevaricazione, sopraffazione e abuso.
Per alimentare questa pianta, il Comitato Piazza Carlo Giuliani ha contribuito con A Sud alla realizzazione di un punto di incontro dell’Associazione “La fuerza de las mujeres Wayùu”, costruito all’incrocio delle Cuatro Vias, incrocio sorvegliato da diversi posti di blocco militare, perché nelle vicinanze passa il treno che trasporta il carbone del Cerrejon, sta per essere costruito un gasdotto e sono in gioco altri progetti che aumenteranno la sfollamento della popolazione soprattutto wayùu. Ma ciò non impedisce a più di duecento donne, in abiti colorati da festa, di prendere parte all’inaugurazione della casa, dedicata a Carlo Giuliani.
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L’impegno comune contro ogni forma di ingiustizia, di discriminazione il gruppo della missione italiana lo sancisce cantando “Bella Ciao” diventata internazionale.
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Questa casa permetterà alle donne Wayùu di continuare a tessere la rete di relazioni per organizzare sempre meglio l’attività di resistenza, il lavoro di denuncia ma anche di valorizzazione del patrimonio culturale e spirituale del loro popolo.
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Giovedì 6 settembre verso le 9 giungiamo al Basurero dove c’è un’enorme discarica a cielo aperto presa d’assalto da quantità incredibile di corvi neri; osserviamo uomini adulti e purtroppo anche ragazzi rovistare nell’immondizia alla ricerca di qualcosa di utile alla quotidiana sopravvivenza.
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Le donne che ci accompagnano, Livia e Marta, ci parlano delle conseguenze perniciose derivanti dalla presenza di questa discarica: inquinamento dell’aria e dell’acqua, malattie infettive da cui sono colpiti adulti e ragazzi, incertezza nell’alimentazione della carne di maiale visto che parecchi di questi mangiano alla discarica senza che vi sia controllo.
Questa ed altre drammatiche situazioni abbiamo esposto ai rappresentanti della municipalità incontrati poche ore dopo all’Università della Guajira ma come risposta abbiamo avuto il solito balletto dello scaricabile; molto penoso, purtroppo.
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Ritorniamo a Bogotà e verso le 18 abbiamo il piacere di incontrare Carlos Gaviria, capo del Polo democratico alternativo, che alle ultime elezioni politiche ha raggiunto circa il 25% del consenso, un consenso inimmaginabile, nonostante gli assassini selettivi e le intimidazioni compiute durante il periodo delle elezioni nei confronti di alcune personalità del PDA.
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Un magistrato coraggioso che ha dimostrato di conoscere quanto avvenuto a Genova nei giorni del G8,che ha espresso il suo sdegno per l’uccisione di Carlo e mi ha pregato di far sentire tutta la sua solidarietà ad Haidi, a Giuliano, ad Elena. Un magistrato consapevole dell’enorme compito che lo attende per fare uscire la Colombia fuori dall’uribismo.
Gi incontri che successivamente abbiamo avuto, e tra questi anche quello con l’ambasciatore italiano in Colombia, non hanno dato risposta all’interrogativo: “Perché degli omicidi, della violenza, delle impunità, dei silenzi, delle complicità governative e statali, della presenza nel Parlamento colombiano di attori e finanziatori del paramilitarismo non si parla più in Europa? Come mai il 15 aprile di quest’anno il ministro D’Alema nel ricevere il vice-presidente colombiano Francisco Santos, accusato dall’italo-colombiano Salvatore Mancuso, uno dei peggiori assassini paranarcotrafficanti, di essere stato uno dei finanziatori di gruppi paramilitari, non ha chiesto chiaramente e pubblicamente il rispetto dei diritti umani in Colombia?”.
Forse, si vuol far credere, per coprire ragioni di interessi commerciali che chiamano cooperazione, che lo Stato colombiano non viola i diritti umani; che le sue istituzioni, incluse le forze armate e i corpi di sicurezza, mantengono una legittimità democratica; che i gruppi paramilitari non hanno alcun rapporto organico con lo Stato; che i gruppi insorgenti non hanno obiettivi politici ma interessi di arricchimento a costo del terrorismo; che i fatti violenti che saturano la quotidianità rispondono ad un’azione gratuita dei gruppi “al margine della legge”; che i milioni di desplazamientos forzati sono prodotti da “combattimenti tra due estremi che coinvolgono la popolazione civile nel conflitto”, e così via di seguito.
Se è giusto mobilitarsi per il popolo birmano come abbiamo fatto in queste ultime settimane, perchè non lo sarebbe per il popolo di un paese dove negli ultimi quarant’anni sono state assassinate 250.000 – 300.000 persone, di cui l’80% da parte delle forze militari e paramilitari, unite nello stesso disegno criminale, e il 20% da parte dei guerriglieri; dove, nella metà degli ’80, 5.000 tra politici dell’Unione Patriottica, sindacalisti, dirigenti di movimenti sociali e indigeni sono stati assassinati nelle maniere più brutali, tali da far impallidire addirittura le dittature cilena e argentina; dove ancora oggi vengono usate minacce, intimidazioni e omicidi selettivi per impedire la crescita di una classe dirigente alternativa a quella che oggi governa la Colombia ed è in gran parte collusa con la criminalità e il narcotraffico?
Peppino Coscione